Pensieri sulla fine di un’epoca
Qui di seguito una lettera che lo storico Andrea Graziosi ha inviato alla lista della Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea, ovvero la SISSCO.
Ho corretto solo delle minime cose e aggiunto i link a due dei saggi citati. Tenete a mente che è un testo scritto per dei colleghi e che ha inviato a me, sua figlia, senza badare troppo alla forma. L’ho trovato interessante e commovente, e gli ho chiesto il permesso di ripubblicarlo qui, perché anche altri passanti potessero leggerlo.
Care Socie e Cari Soci,
Al di là delle sue manifestazioni più scadenti, per fortuna ora più rare, alla radice della intensità del dibattito vi è un evento epocale non solo e non tanto perché lo sia di per sé (altri ve ne sono stati, dalle riforme di Deng Xiaoping al 1989–91, fino alla crisi demografica di tutti i paesi che raggiungono un certo grado di benessere e tanti ancora se ne potrebbero aggiungere), ma perché fa vedere di colpo a tanti di noi quanto le cose siano cambiate. Esso rende infatti immediatamente evidente quanto le categorie con cui siamo cresciuti e abbiamo interpretato il XX secolo e le nostre vite, anche dentro di noi, siano ormai spuntate e non perché fossero “false” allora, quando erano piene di vita e di forza, ma perché anche le categorie e le interpretazioni come tutti gli oggetti storici, e tutti gli esseri umani, deperiscono e alla fine si inabissano, in qualche modo scompaiono, o cambiano talmente di senso da essere creature nuove, malgrado il vecchio nome. Ciò non può che provocare intima pena e anche dolore, intellettuale e morale, e questo spiega almeno in parte, credo, l’accanimento e la passione dei nostri dibattiti.
È perciò di questo che vorrei prima di tutto parlare a chi ha un po’ di tempo e di interesse. Alla fine riprenderò brevemente anche le discussioni sulla nostra lista e spero che a quel punto ne saranno chiari i legami con riflessioni che forse a causa di quanto sono andato studiando mi accompagnano con forza crescente da alcuni decenni.
Tutto cominciò per me negli anni Ottanta, quando mi accorsi che le idee della sinistra “progressista e moderna” (in Italia in larga parte confluite nel PCI) in cui ero nato — è la mia storia ma credo non sarebbe difficile raccontarne una simile di destra o religiosa — avevano subito una trasformazione radicale, perdendo da un lato il contenuto razionale del loro progetto trasformativo (piano, statizzazione, modernizzazione/sviluppo, collettivismo, partito, uso della forza) e trasformandosi dall’altro in una sommatoria di “pulsioni benevolenti” da cui è per definizione impossibile dissentire: chi può essere contro la pace, i diritti crescenti e per tutti, il rispetto del pianeta, la fratellanza universale ecc.?
Ciò nascondeva un processo più profondo — vale a dire la sostituzione di parti del suo contenuto originario con altri concetti e categorie di provenienza politica e ideale molto diverse: i popoli e non le classi (come vide Berlin, nel mondo dei diritti dei popoli Herder aveva vinto su Marx); l’individuo e non il collettivo (il trionfo dell’ideologia dei diritti della persona, che i teorici del socialismo avevano disprezzato, fa particolare impressione); i limiti allo sviluppo e non lo sviluppo; l’ecologia e non, che so, l’elettrificazione e le sue dighe; il piccolo è bello e non i grandi progetti, in una lista che potrebbe continuare e che configurava tra l’altro, specie ma non solo in Italia, l’incontro con grandi tradizioni religiose.
Da questo punto di vista gli anni Settanta sono il decennio decisivo, un decennio che ha dentro di sé anche la fine degli imperi coloniali, l’inizio del distacco anche “etnico” degli Stati Uniti dall’Europa dopo la riforma dell’immigrazione, e che non a caso finisce con le riforme cinesi e la rinnovata visibilità di un Islam mai spento. Oggi credo però che la vera svolta abbia forse cominciato a manifestarsi già prima e si radichi in due fondamentali processi demografici, che a riprova dell’unicità della specie umana si affermano progressivamente e in parallelo col raggiungimento di un certo benessere in tutti i paesi del mondo. Penso al crollo delle nascite e allo straordinario balzo in avanti nell’attesa di vita che ha reso e rende tutte le società più vecchie e meno vitali, a partire dalle nostre, e ci fa vivere anche psicologicamente in una società completamente diversa da quella del giovane Werther, della giovine Italia, di “Giovinezza” o della giovane Indonesia.
Tutto ciò ci ha portato progressivamente a vivere in un mondo radicalmente diverso da quello in cui almeno io sono nato e cresciuto, ma nelle cui categorie forse anche altri molto più giovani di me si sono formati e continuano a formarsi, specie in quel che resta di un Occidente “mentale” che nella realtà non c’è più, almeno nelle forme e nei termini che abbiamo conosciuto.
Il 1991 in questa prospettiva segna sì la sconfitta del Moderno minore socialista (quello del piano e dello stato) e il trionfo di un Moderno maggiore, la cui fantastica vitalità economica era confermata dai successi straordinari delle tigri asiatiche e delle riforme cinesi, ma celava — anche in Cina — il veleno demografico oltre che ecologico che lo corrodeva a meno di correttivi radicali. Esso annunciava tuttavia anche, a chi voleva e sapeva vedere, la crisi di quello stesso Moderno maggiore e dell’ennesima versione dell’Occidente che lo aveva inizialmente incarnato.
Questa crisi era però nascosta allora da un trionfo innegabile quanto illusorio, e dalle facili denunce di un pensiero unico e di un’ideologia della “fine della storia” (un brutto titolo più che un brutto libro) di cui in realtà partecipavano quasi tutti. Lo testimoniavano il fatto che l’idea prevalente (nella nostra Costituzione come nei documenti della costruzione europea o in molti testi statunitensi) era quella del “miglioramento continuo” (come se ciò fosse possibile in un mondo in cui il destino di tutti è nell’invecchiamento e nella morte, e in cui solo dall’accettazione della propria mortalità come individui può nascere e fiorire la vita — facile qui rimandare alle nostre reazioni di fronte al COVID, e al sacrificio dei giovani ad esso); il continuo, cieco riferimento a diritti in perenne ampliamento e per sempre acquisiti (ahimè, povero Bentham, verrebbe da dire); alla pace perpetua; o a una fratellanza universale che solo la malvagità di alcuni impedisce di raggiungere. Le reazioni di tanti giovani amici e tanti allievi che mi ripetono “ma come”, “non ce lo saremmo mai aspettato”, “è impossibile” mi hanno più volte ultimamente confermato la forza di questa “buonismo ingenuo”, il cui vero limite sta nella incapacità di vedere oltre che di ascoltare la realtà, e in specie il Male, che esiste.
Eppure le guerre jugoslave, presto derubricate a episodi minori, annunciarono con chiarezza per chi studiava quelle storie ciò che sarebbe potuto accadere nei territori ex-sovietici (quello di Gorbachev e Elc’in e Kravchuk, spesso oggi disprezzati per la loro ‘ingenuità’, fu davvero un ‘miracolo’), testimoniando la falsità intrinseca delle pur gradevolissime e benefiche idee dominanti. E la grande divisione del mondo in stati più o meno “nazionali” continuava e continua a bruciare non solo in Africa, il continente dove la grande accelerazione, da noi ormai spenta, è cominciata più tardi e dove oggi c’è più vita, ma anche in almeno altre due aree specifiche, oltre a quelle ex socialiste, la più grande delle quali è legata, penso non a caso, al mondo islamico.
Per quelli che come me seguivano certi mondi, a partire dal 2004 fu chiaro che qualcosa di nuovo anche a livello ideologico andava componendosi, certo in modo e con ingredienti diversi, intorno a Putin in Russia come ad altri nuclei in altri paesi (penso per esempio all’India ma anche all’evoluzione del gruppo post-dengista in Cina, del Trumpismo ma anche di certa “nuovissima” sinistra in Usa, e persino ai Cinque Stelle o a un certo neo-social-nazionalismo in Italia), e che questo qualcosa trovava sponda in, e traeva forza da un “Occidente” davvero in crisi. Uso le virgolette perché l’Occidente è un concetto intellettuale e storico, NON geografico e fisso, legato ai valori di una libertà anche individuale declinabile in modi molto diversi e sempre cresciuta accanto e insieme a oppressione e ingiustizia e quindi comprensibilmente accusabile di ipocrisia, se non si prestasse attenzione al fatto che almeno in questi “Occidente” essa è in qualche modo e comunque sopravvissuta.
L’Occidente a mio avviso (e per me purtroppo, ma questo è un giudizio personale) oggi in crisi terminale è quello nato dopo il 1945 da un’unione tra Stati Uniti e Europa occidentale che fino agli anni Sessanta ha dominato il mondo non socialista. Prima di esso vi erano stati — in una catena di cui dimentico sicuramente alcune maglie e che limito alla nostra storia — quello greco classico, quello cristiano e quello dello stoicismo imperiale romano, quello dei comuni italiani, del Rinascimento, dell’illuminismo anglo-francese, nonché della grande cultura e della grande scienza tedesca e anche russa, il cui tramonto Spengler annunciò con tanta amarezza nella prima guerra mondiale.
La crisi del nostro Occidente, visibile negli anni Settanta e poi nascosta dal trionfo del 1991, era nel primo decennio del nostro secolo sotto gli occhi di tutti, Putin compreso. Da un certo punto di vista, il suo ultimo “presidente” è stato Bush jr, e Obama il primo della nuova era. Non vi è per esempio dubbio che un ruolo importante nell’incoraggiare Putin lo abbiano giocato le minacce formali di Obama a Assad, prima formalmente annunciate e poi non realizzate, anche perché il vero perno di quella presidenza era — dichiaratamente e non irragionevolmente — la costruzione di un’America migliore e non la guida del “mondo libero”, un’America tra l’altro non più (tranne che tra gli anziani) un paesi di italo-, ebreo- o polacco-americani, ma piuttosto di appena arrivati messicani, indiani, cinesi, africani ecc.
È il declino — economico come demografico (i dati sono impressionanti), culturale e politico — di quest’ultima incarnazione dell’Occidente, che credo molti rimpiangeranno malgrado le sue ipocrisie, i suoi vizi, e i suoi errori, non certo la paura della minaccia di una Nato che non teme affatto, ad aver convinto Putin che si poteva agire, e tante élite mondiali a pensare che l’ordine del mondo potesse e dovesse essere riscritto, anche se certo non da un paese in realtà “piccolo”, povero e in crisi come la Russia. Una Russia, la cui perdita nel 1917, fu uno dei fattori fondamentali del tramonto dell’Occidente ‘spengleriano’ e una Russia con cui negli anni Novanta non ci si è riusciti a riunire credo essenzialmente a causa del passato sovietico (su questo ho pubblicato l’anno scorso un saggio sul Journal of Cold War Studies, che sarò lieto di inviare a chi ne farà richiesta, e che viene ora seguito da un Forum della stessa rivista).
Siamo così arrivati a Putin. La guerra è sempre e ovunque orribile, ma la sua è diversa non solo per la sua scala in Europa — il rischio, reale in base alle dichiarazioni di Putin stesso, è che le guerre jugoslave ci appaiono presto ‘piccole’ — ma perché, come ho già scritto, segnala e definisce il nostro tramonto e ci segnala con forza la necessità di rivedere le nostre idee, le nostre categorie, la nostra interpretazione del passato oltre che del presente. Ci dice insomma da un lato che una bella favola è finita, ma abbandonare le belle favole è difficile e si può tranquillamente morire cullandosi in esse; e dall’altro che c’è bisogno di immaginare un altro “luogo” per creare assieme una nuova libertà, magari con l’Africa subsahariana e con chiunque altro sarà possibile farlo.
È diversa infine per un’ultima caratteristica, pubblicamente annunciata ma che spero fortemente non si realizzi: è la prima guerra che si propone formalmente e ufficialmente di convincere un popolo che in realtà esso si è sbagliato e che non ha diritto a esistere se non come manifestazione secondaria di un altro. Si torna qui all’herderismo come grande ideologia trionfante della seconda metà del XX secolo, e vi si torna anche “attraverso” uno dei suoi più grandi “herderiani”, quel Rafael Lemkin che ha fatto per tutto il mondo dell’annichilimento, in tutto o in parte, di un popolo il maggior crimine immaginabile, il genocidio (sulla forza e i problemi del concetto rimando a un libro appena uscito da McGill).
Ricordo infine solo che l’Ucraina ha già conosciuto qualcosa di simile nel 1932–1934, con l’Holodomor di Stalin, che fece circa 4 milioni di morti (Lemkin lo riconosceva personalmente e senza esitazione un genocidio) e che fu accompagnato dalla liquidazione della élite politica e culturale nazionalcomunista ucraina, a sua volta forse un anticipo della “denazificazione” putiniana (che come le dekulakizzazioni o le derattizzazioni annunciano esplicitamente un programma di sterminio categoriale cui bisognerebbe fare attenzione). A onor del vero va aggiunto che Stalin, al contrario di quel che dice Putin, a parole continuò sempre a sostenere che Lenin aveva avuto ragione nel 1922, e che l’Ucraina e gli ucraini esistevano. In questa prospettiva, quindi, e lo dico con freddezza e strazio, Putin è potenzialmente anche peggiore.
Mi piacerebbe molto che davanti a tutto questo almeno pensassimo.
Un abbraccio a tutte e tutti.